Conoscere e riconoscere

Questa è la relazione di Nazzareno Guarnieri (Fondazione romanì Italia) al convegno
“Riconoscimento, tutela e promozione delle comunità romanès in Italia. Quali azioni promuovere?”
che si è svolto alla biblioteca del Senato il 20 febbraio.

Nel nutrito corpus delle leggi regionali degli anni ’80 per le comunità romanès la costante più significativa è l’equivalenza tra “cultura rom” e “nomadismo” e si lega a un’errata denominazione e rappresentazione etnica, che ha condizionato la stesura dei testi normativi e giustificato politiche differenziate e di assistenzialismo culturale.
Tale equivalenza ha portato a ridurre i testi normativi delle leggi regionali alla salvaguardia della cultura rom con la tutela del diritto al campo nomadi.
Una interpretazione culturale sbagliata.
Guardando retrospettivamente al corpus di leggi regionali per le comunità romanès, è evidente che esso abbia più che altro contribuito a cristallizzare un’idea (deformata) della minoranza romanì rendendola sempre più opaca e impermeabile alla dialettica sociale e culturale. La minoranza linguistica romanì è poca o mal conosciuta, quello che l’opinione pubblica conosce è generalmente un insieme di luoghi comuni, quasi sempre negativi, poco o nulla si sa o si sente dire circa la lingua-cultura romanì, identificata con una generica “cultura nomade”.

Le numerose iniziative destinate alle comunità romanès, realizzate con un approccio di assistenzialismo culturale, non hanno raggiunto i benefici sperati perché da mezzo secolo sono realizzate con un modello di sviluppo di politiche differenziate che hanno prodotto interpretazioni e distorsioni del dato culturale dell’identità culturale romanì e della
minoranza romanì e condotto al fallimento gran parte delle iniziative, in particolare

– NON hanno trasmesso all’opinione pubblica corrette informazioni di base – hanno sviluppato una mentalità assistenziale ed un fatalismo persecutorio;
– hanno ignorato i processi di sviluppo dell’identità culturale romanì e della partecipazione attiva;
– NON hanno permesso una seria diagnosi dei bisogni sociali, culturali e delle problematiche interne ed esterne;
– hanno prodotto errate interpretazioni e distorsioni della cultura romanì e della minoranza romanì.

A coloro che oggi affermano che occorre cambiare l’approccio culturalista con cui è stato affrontato il tema rom rispondo che a mio giudizio commettono una sbagliata valutazione perchè nelle iniziative attivate la cultura romanì è pessimamente interpretata.

Credo che l’intenzione era di mettere in atto un approccio di ordine culturale per il tema rom, ma le interpretazioni culturali erano sbagliate (questo generalmente accade quando è assente la partecipazione attiva delle comunità), più che di un approccio culturalista da oltre mezzo secolo per il tema rom si mette in atto un approccio di assistenzialismo culturale, che nega, esclude e marginalizza l’identità culturale romanì.

Tutto questo è molto grave perché considera la cultura romanì in modo totalmente diverso da come sono considerate le altre culture. Tutte le culture, come le identità culturali, sono dinamiche e si modificano sempre, sono i processi di inculturazione/acculturazione a determinare il modello di adattamento del cambiamento.

Pertanto anche il tema rom va affrontato essenzialmente con un approccio culturale, non di assistenzialismo culturale, senza estremizzarlo o marginalizzarlo. Per essere maggiormente comprensivo posso dire: “partire da lì e non cancellarla” nei processi di inculturazione/acculturazione.

Interpretazioni e distorsioni hanno condotto ad identificare la cultura romanì solo con la musica, il teatro, il cibo e abbigliamento, certamente è anche questo, ma non solo questo. Le culture per non morire devono evolversi perche “La mente umana è un computer, la cultura il suo software”.

Insistere sulla negazione del rom e sulla difficoltà o impossibilità di dare una definizione omogenea di cosa sia l’identità culturale romanì e la minoranza romanì, come se per altri gruppi (gli italiani, i francesi, gli
italo-albanesi, gli occitani ecc.) fosse possibile dare una definizione etnica chiara e netta (non burocratica o amministrativa), si cade in un “relativismo paradossale”: siccome l’identità romanì è inafferrabile, ogni politica per
la minoranza romanì è una forzatura.

Faccio l’esempio dell’Italia dove ci sono 20 comunità regionali e circa 8400 comunità comunali, con 8400 dialetti spesso incomprensibili tra loro. Tutte queste comunità comunali hanno ciascuno un proprio dialetto, e tutti questi dialetti hanno una determinata percentuale di base comune linguistica, inoltre tutte queste comunità comunali hanno valori culturali condivisi e la specificità di ogni singola comunità. Identico ragionamento è valido per tutte altre popolazioni ed altre minoranze. Mi chiedo perché non deve essere valido per la minoranza romanì?

Un dato è certo: alcune esperienze sul campo, in ambito rom e in altri contesti minoritari, suggeriscono una tendenziale e diffusa corrispondenza tra evaporazione linguistica, desertificazione culturale e rischio di esclusione e di devianza.

Il tema rom è stato e continua ad essere il terreno ideale per una fastidiosa tendenza, che non esito a definire necrofila, saccheggiarla di fatto:

– Troppo spesso hanno lavorato in un territorio senza restituire alla comunità il risultato del lavoro realizzato
– L’impostazione generale dei diritti culturali è rivolta al passato o alla conservazione e troppe volte ignora la comunità. Si dimentica che le culture sono dinamiche ed anche la cultura romanì è dinamica.
– Si mettono in campo politiche il cui impatto generalmente NON viene valutato ed in assenza di una seria valutazione non è possibile verificare la qualità delle azioni e la loro piena o parziale attuazione. Ogni progetto di cui non conosciamo l’esito, l’impatto, la portata, rischia di essere uno sperpero di energie e risorse.

Alle derive opacizzanti ed escludenti, alle deformate interpretazioni e distorsioni del data culturale della minoranza romanì occorre contrapporre un radicale cambiamento.

La crescita numerica dell’attivismo romanò dell’ultimo decennio finora non ha prodotto cambiamenti sostanziali del modello di sviluppo delle azioni e delle rivendicazioni per la minoranza romanì, ed a mio giudizio la responsabilità è da attribuire all’assenza di una chiara visione politica strategica con contenuti dotati di senso, e con professionalità rom, specifiche e non esclusive

E’ necessario e urgente uscir fuori dalla retorica: o spieghiamo in modo forte e chiaro perché ed entro quali soluzioni dotati di senso la minoranza romanì merita di essere riconosciuta e promossa, oppure è meglio astenersi dal ripetere come un mantra le solite affermazioni, perché ogni ripetizione superficiale non fa che svuotarle di senso ogni volta di più.

E’ terminata l’epoca della retorica, è giunto il momento di condividere una visione politica con contenuti e strategia dotati di senso.

Per riconoscere e promuovere la minoranza romanì in Italia è essenziale attivare azioni sul medio e lungo periodo che interpretano il tema delle comunità romanès in chiave di processi, piuttosto che di prestazioni, che sono generalmente silenziose e poco spettacolari, molto spesso tanto più incisive, SENZA contrapporle alle azioni urgenti a sostegno delle comunità che si trovano in situazioni precarie e pericolose per la propria e l’altrui incolumità.

E’ necessario processi interculturali di sviluppo delle comunità per produrre e condividere metafore e narrazioni, per rompere un conformismo delle convinzioni sociali e culturali che alimenta discriminazione, stereotipo e pregiudizio.
E’ indispensabile ed urgente
– professionalizzare il dibattito sul tema rom,
– porre attenzione ed evoluzione alla questione linguistico-culturale,
– avviare processi di sviluppo delle comunità
– una seria cultura della valutazione mettendo in questione il come – il
quanto – il perché degli stanziamenti economici relativamente al tema rom.

“Conoscere e riconoscere” sono due momenti di un unico movimento virtuoso, necessario ed urgente, per rompere l’opacità della minoranza romanì, bilanciare il deficit conoscitivo, ed attraverso un articolato lavoro sul campo, condotto secondo criteri scientifici con la partecipazione attiva e qualificata del rom, specifica e non esclusiva, fare chiarezza, conoscere la lingua-cultura romanì ed il ruolo che svolge come elemento identitario, come legante intergenerazionale, come patrimonio immateriale della comunità, e preparare il terreno a un suo pieno riconoscimento formale e sostanziale.

Occorre articolare il momento del conoscere (per comprendere) con quello del riconoscere (per intervenire) con quello dell’integrare (per contribuire a migliorare le condizioni di esistenza della comunità), momenti necessari di un unico movimento di crescita sociale e culturale della comunità romanì.

Per riconoscimento intendiamo il riconoscimento della personalità culturale della comunità romanì, intesa come «comunità linguistica di minoranza» affinché il patrimonio memoriale e narrativo della comunità contrasti la perdita d’identità foriera di disistima e, quindi, di esclusione e devianza. La lingua-cultura prima di essere uno strumento di comunicazione è l’ambiente di vita della persona e del gruppo, è un giacimento memoriale della cultura materiale ed immateriale.

La collocazione del principio di protezione delle “minoranze linguistiche” tra i principi costituzionali fondamentali (art. 6): *“La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche” è un fatto di notevole importanza della Costituzione Italiana del 1948, la quale è sostanzialmente improntata all’ideologia antifascista ed è orientata verso una riparazione storica nei confronti delle minoranze linguistico-culturali oppresse durante il ventennio fascista.
Il Parlamento Italiano ratifica l’articolo 6 della costituzione dopo mezzo secolo con la legge 482/99, ed esclude la minoranza linguistica romanì.

Fondazione romanì Italia, Università degli studi di Teramo, Associazione LEM Italia e diverse altre associazioni locali hanno presentato una proposta di legge orientata al riconoscimento della lingua, il romanès, intesa come elemento patrimoniale che ha un valore in sé.
Questo riconoscimento non è un elemento differenziale, quindi separativo, ma è parte di un processo più ampio di riconoscimento inteso come dialogo, dove c’è solo da guadagnare.

Se la Repubblica Italiana riconosce la lingua romanès:- rispetta finalmente l’art. 6 della Costituzione e mette fine all’indegna discriminazione della minoranza romanì includendola nel novero delle minoranze linguistiche storiche riconosciute;

– crea le condizioni per un’emancipazione anche sociale delle comunità romanès, che anche grazie a questo riconoscimento potrebbero riavvicinarsi alla loro lingua, memoria, identità, contrastando in tal modo deleteri processi di alienazione culturale che portano spesso alla esclusione e devianza sociale;

– il riconoscimento significherebbe una “normalizzazione” della lingua, cioè uno status “normale” della lingua-cultura romanì. La lingua non avrebbe più solo la funzione criptolalica (la uso per non farmi capire), ma sarebbe studiata ed eventualmente insegnata anche a un pubblico di non rom. Dove c’è lo studio c’è la comunicazione e le possibilità di confronto e scambio.

– risponde finalmente alle innumerevoli e anche pesanti sollecitazioni ricevute negli anni dal comitato degli esperti del Consiglio d’Europa in merito alla mancata applicazione, in Italia, della Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali relativamente alla minoranza romanì.

Le politiche differenziate e l’assistenzialismo culturale sono un gravissimo errore, la leggi regionali sono state poco opportune, ma questo non vuol dire che ipso fatto sia sbagliato legiferare sulla minoranza romanì.
Per esempio la legge n.482/99 (“Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche”), che colpevolmente non include la minoranza linguistica romanì, è molto criticabile, sotto tanti punti di vista, ma è comunque una legge importante e che ha prodotto, quando applicata in modo virtuoso, ottimi risultati.

Un approccio culturale è necessariamente comprensivo dei diritti fondamentali; il tentativo di cercare di negare la diversità culturale romanì ed il ruolo che essa svolge per evitare esclusione e devianza sociale, è un tentativo grave che nel passato tanti danni ha prodotto alle comunità romanès.

In conclusione Fondazione romanì Italia vuole ringraziare il prof. Giovanni Agresti – docente Università degli studi Federico II° di Napoli – esperto in sociolinguistica, per le ottime iniziative avviate e finalizzate a rivendicare i diritti linguistici-culturali della minoranza romanì, e speriamo che nell’anno 2018, ricorrenza del millennio della diaspora romanì, si possa realizzare un vocabolario polinomico e sociale “Italiano – Romanès”e la sua diffusione all’interno ed all’esterno delle comunità romanès.

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