Un buon incontro

Anna Pizzo
Se “Il Venerdì” di Repubblica dedica la copertina di questa settimana al Porrajmos (badate, non tanto alla Giornata della Memoria quanto proprio al Porrajmos) questo vuol dire che finalmente la “questione” rom, con tutto quello che comporta (pregiudizi, se non esplicito disprezzo) ha finalmente acquisito diritto di “cittadinanza”?
Francamente è presto per dirlo, anche perché la stragrande maggioranza dei segnali parlano di una situazione, se possibile, ancora più incattivita e/o indifferente rispetto solo a qualche anno fa. Tuttavia, le persone che sabato pomeriggio hanno affollato il salone della Comunità di Base di San Paolo a Roma, invitate dall’Associazione Cittadinanza e Minoranze a riflettere assieme sullo sterminio nazifascista che 75 anni fa portò alle camere a gas oltre 500 mila Rom, Sinti e Caminanti sono un altro buon segnale. E’ anche vero, come ha detto una nota attivista rom, che iniziative come la nostra, di questi tempi, sono sempre più rare e non perché le persone siano improvvisamente diventate ciniche ma perché le associazioni non hanno più un soldo. Ma sabato è stato un pomeriggio importante perché le testimonianze, le analisi, i punti di vista e i riferimenti storici non si sono limitati a ripercorrere un capitolo orribile ma hanno cercato di guardare in avanti. A quello che si può fare ora e subito per arginare l’onda di barbarie alimentata da istituzioni razziste e da un tessuto sociale slabbrato e attonito.
L’iniziativa di Cittadinanza e Minoranze, dal titolo quanto mai evocativo “Mai più zigeunerlager” (i campi di sterminio espressamente “dedicati” a Rom e Sinti) ha immediatamente richiamato alla mente i cosiddetti “campi nomadi”, vergona nazionale e ludibrio internazionale, ma ha indicato, a suo modo, una strada, quella della resistenza. Come nel 1944 un gruppo di 6000 rom del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, destinati alle camere a gas, resistettero alle SS per oltre tre mesi prima di essere sopraffatti (in fondo, cosa rischiavano se non la morte?) così oggi è possibile opporsi. Lo hanno detto in molti, all’incontro, a cominciare dal presidente dell’Anpi, Fabrizio De Sanctis. E le parole toccanti di Saska hanno reso ancora più vera e urgente la necessità di una presa di parola collettiva. Per Saska gli orrori dello sterminio non sono mai terminati perché nella storia di Rom e Sinti quegli orrori si sono ripresentati ciclicamente e ancora oggi impediscono una vita degna di questo nome.
Sono gli “invisibili”, come li ha chiamati il presidente dell’ottavo Municipio, Amedeo Ciaccheri, che ha parlato di una deriva di emarginazione che investe sfere sempre più ampie di popolazione. Che meritano risposte, ha sottolineato, e soprattutto che sono alla ricerca di comuni denominatori per creare reti di sostegno e forza di contrasto. Anche per il giurista Giovanni Russo Spena la disobbedienza a leggi razziste e alla emarginazione “etnica” è un diritto e va perseguita in tutti gli ambiti in cui si manifesta: dai livelli istituzionali ai singoli gesti che ciascuno può e deve compiere.
Anna Maria Rivera, antropologa e attivista antirazzista, che ha magistralmente puntato il dito sui tanti Porrajmos (divoramenti e devastazioni) che si compiono in nome del diritto (del più forte), ha invitato noi tutti a linguaggi e comportamenti in grado di rovesciare la risacca qualunquista e menefreghista imperante. E Marco Brazzoduro, il presidente di Cittadinanza e Minoranze, ha focalizzato con puntualità le date di quella escalation di segregazione e persecuzione che esplose nell’eccidio perpetrato dal nazifascismo.
Un incontro che non voleva terminare, accompagnato dal violino di Sasha e dalle poesie di Agim, per il bisogno delle quasi cento persone che vi hanno partecipato di sapere di più, di capire, perché conoscere è un buon modo per poter agire. Lo ha detto il sociologo Enrico Pugliese sollecitando a domandare, per avere il diritto di ottenere risposte. E sul diritto negato ad avere risposte ha puntato il dito Sevla, la vice presidente dell’Associazione ospite, testimone di anni di emarginazione e indifferenza per lei, la sua famiglia, la sua comunità, l’intera cultura Rom. Che ha concluso, non senza amarezza e una vena di disperazione: eravamo in guerra allora, poi lo siamo stati nella ex Jugoslavia, e lo siamo ancora oggi. Siamo sempre in guerra.

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