Scampoli di vite

Il settimanale l’Espresso ha dedicato ben cinque pagine questa settimana ad un’ampia testimonianza molto informata di ciò che sta succedendo tra i rom e nei campi grazie alle informazioni in prima persona di una donna rom attrice e attivista politica: Dijana Pavlovic*

Ho passato l’adolescenza in un clima di guerra. Quando nel ’99 sono arrivata in Italia da una Belgrado devastata dalla guerra e dalla crisi economica, ho pensato che non avrei mai più provato quel senso di isolamento, di insicurezza e smarrimento collettivo. Ora invece se cammino per le strade di Milano e vedo solo persone spaventate, in fila davanti al supermercato, che riempiono i carrelli di qualsiasi cosa, come facevano i miei genitori in Serbia. Anche la polizia, i controlli, i militari e i blindati per le strade mi riportano alla Belgrado della mia adolescenza. La paura collettiva è molto simile. Ma identico è il fatto che anche qui, ades- so, vengono colpiti soprattutto i più fragili, i più deboli, i più poveri. Senza che nessuno se ne accorga o se ne preoccupi.

Me ne rendo conto parlando ogni giorno con i rom e i sinti terrorizzati perché sanno che nei campi vivono in tantissimi in poco spazio e sono più a rischio degli altri; perché sanno che le loro comunità, per la bassissima qualità di vita, hanno un numero molto più alto di persone con problemi di salu- te che rischiano la vita se si infettano; perché sanno che, essendo lavoratori precari, in nero, raccoglitori di ferro, venditori di cose usate nei mercatini, non hanno più nessun guadagno. Per non parlare di chi sopravvive chiedendo l’elemosina per strada. Ma anche quelli che hanno un’attività propria, co- me i giostrai e i lavoratori dello spettacolo viaggiante, sono ormai alla fame. E nessuno inora ha pensato di inserirli nelle categorie da aiutare in questo momento di emergenza.
Ogni giorno, come portavoce dell’Aleanza Romanì, ricevo telefonate da tutta Italia, dai campi e dagli attivisti del movimento Kethane: quando posso, chiamo i comuni, le prefetture, i sindaci, le regioni, i ministeri per cercare di risolvere qualche problema.
Roma è il problema più grande, con i campi in condizioni igienico-sanitarie da terzo mondo: circa 3.000 persone di cui metà bambini hanno bisogno di tutto, acqua, cibo, farmaci, pannolini, latte in polvere. L’amministrazione co- munale per ora non ha fatto nulla, no- nostante le numerose segnalazioni.

Parlo con Cristina, mi chiama dal campo di via Salone, a est della capitale, oltre il raccordo. Ha 18 anni, è di origine serba ma è nata in Italia e cit- tadina italiana. Una famiglia numero- sa, undici tra genitori, sorelle, fratelli, nipoti. Qualche tempo fa ha fatto un corso ed è diventata pizzaiola. Per un anno ha lavorato in una pizzeria, poi ha perso il lavoro. Un mese prima che iniziasse l’emergenza Covid-19 è stata presa in un bar, che subito dopo ha chiuso per il decreto ministeriale. Non ha più un salario. Nella sua famigliaattualmente nessuno lavora: prima raccoglievano ferro e facevano i mercatini. Non hanno più soldi per mangiare. Mi chiama imbarazzata. Chiede come si può avere una distribuzione di ge- neri alimentari di prima necessità nei campi. Spiega: «Sant’Egidio oggi ci ha portato un pacco di cibo, abbiamo ringraziato tanto, ma ci basta per un paio di giorni, siamo in undici. Sant’Egidio fa quello che può, ma puoi per favore chiamare di nuovo il comune?».

Catia vive a Milano in un cen- tro di accoglienza del comu- ne. Ha solo 9 anni. È rumena. Lei e la famiglia – mamma papà e fratello – ci sono arrivati dopo un lungo pellegrinaggio tra baraccopoli e sgomberi. Ne ha viste tante, anche se è piccola. Ha cambiato diverse scuole in pochi anni, ma è brava e in classe andava volentieri. Suona il violino e canta nel coro Kethane. Si è esibita con i suoi compagni alla Scala, il 20 gennaio scorso per la Giornata della memoria. Per lei la scuola ora non c’è più: non può fare lezioni online come suoi compagni, non ha un pc. Non è stata nemmeno contattata per telefono dalla maestra. La sua mamma mi dice che, anche se le mandassero i compiti, non potrebbe farli perché non ha penne e colori. Lo studio comunque ora è l’ultima delle loro preoccupazioni: sono tutti chiusi nel centro senza acqua potabile e sen- za cibo. «Ma oggi viene la maestra di violino che ci porta la spesa, se prima non la ferma la polizia. Non entra, ce la lascia davanti al centro e noi poi la prendiamo».

Entrare e uscire dai campi infatti è diicile. Ci sono fuori i poliziotti che chiedono l’autocertiicazione ma nes- suno dentro ha una stampante, molti nemmeno gli strumenti per copiare tutto a mano. Allora li rimandano dentro, senza complimenti. E i campi diventano quasi prigioni. Il movimen- to Kethane ha lanciato una petizione sui social: «Nei campi rom e sinti ogni tipo di servizio è stato sospeso. Il pericolo di contagio è molto alto perché ci sono tante persone in spazi piccoli, privi di servizi e spesso senza acqua. Chiediamo alle istituzioni di non di- menticarsi di loro».
In Sardegna, nel campo rom vicino a Oristano, vivono circa cento persone. Sabrina Milanovic, abitante del campo mediatrice culturale e attivista, si assi- cura che i bambini facciano i compiti tutti i giorni. Ha 30 anni, è serba ma cittadina italiana, parla un perfetto italiano con un perfetto accento sardo. Nel campo pochi hanno internet e non ci sono stampanti.
Una ragazzina gioca nel campo di via Salone a Roma. In assenza di pc e connessioni, i bambini sono tagliati fuori dall’insegnamento a distanza
Andrea, giostraio sinti, e Sabrina, rom di origine serba, mediatrice cuturale in Sardegna. Nel campo rom vicino a Oristano, vivono circa cento persone. Sabrina Milanovic, abitante del campo mediatrice culturale e attivista, si assicura che i bambini facciano i compiti tutti i giorni. Ha 30 anni, è serba ma cittadina italiana, parla un perfetto italiano con un perfetto accento sardo. Nel campo pochi hanno internet e non ci sono stampanti. Lei ha un pc: riceve le mail dagli insegnanti con i compiti e poi li copia tutti a mano, uno a uno, per ogni bambino del campo.

Andrea ha 63 anni, è uno degli oltre 15 mila giostrai sinti che in questo momento sono in ginocchio. Quando è arrivato il decreto ministeriale si tro- vava con altre famiglie sinte a Forlim- popoli, stavano per montare le giostre per la iera del paese, che poi è saltata. Lui e gli altri Ssinti allora hanno chie- sto aiuto al comune di Forlimpopoli per i generi di prima necessità. La sindaca ha mandato qualcosa – latte e biscotti – ma solo per quelli tra loro che sono residenti nel comune: la famiglia di Andrea, che ha la residenza a Cesena, è stata esclusa. «Siamo giostrai da quattro generazioni», dice, «mio non- no ha ottenuto nel 1937 il permesso di montare le giostre, ho il documento. Facevamo andare il “calcioinculo” con una moto Guzzi e le giostrine con un motore Balilla a 3 marce. Ho 63 anni, mi sono sempre fatto un mazzo così, ho sempre pagato le tasse e non ho mai rubato neanche una caramella. Ma se non ho da mangiare non so pro-
prio come fare…».
Nella nostra cultura la solidarietà
è forte, maturata attraverso secoli di ostilità e persecuzioni. Una solidarietà che vale per chiunque abbia bisogno.

Miguel è un sinto di Luc- ca, un attivista, e lavora per una associazione di Lucca. In questo momento distribuisce il cibo alle famiglie segnalate dal comune. E non solo quelle rom o sinti ovviamente: tutte. È orgoglioso di quello che fa: «Noi siamo all’avanguardia dia nell’assistenza alimentare, invece di prendere il pacco già confezionato, le famiglie possono scegliere che cosa prendere in base al conteggio di proteine, carboidrati, frutta e verdura e anche i detersivi. È meno umiliante, è importante mantenere la dignità in momenti come questo».
Salvatore invece è un rom serbo, ha 20 anni, è arrivato in Italia due anni fa con la famiglia. In Serbia avevano una panetteria e stavano bene, ma sono dovuti scappare dopo essere stati presi di mira da un gruppo di naziskin locali perché “zingari”. Gli hanno distrutto la panetteria diverse volte e sono stati minacciati. La polizia non faceva nulla per proteggerli allora Salvatore e la famiglia hanno preso un pullman per Milano lasciando tutto quello che avevano. Adesso vivono vicino a Torino, in una casa di emergenza. Lui fa il volontario in ambulanza per trasportare le persone infette da coronavirus in ospedale. Dice: «Bisogna aiutare chi sta peggio, poi qualcuno aiuterà me e la mia famiglia».

*L’Espresso

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