Le case di carta

Anna Toro*

«Mi stanno telefonando dai campi, le persone hanno finito i viveri e molti non hanno la possibilità di fare la spesa. Sono abbandonati a loro stessi e rischiano di fare la fame». A lanciare l’allarme è Marco Brazzoduro, presidente dell’associazione Cittadinanze e Minoranze che da diversi anni si occupa di assistenza alla popolazione rom e sinti in emergenza abitativa nella Capitale. Il decreto governativo #IoRestoaCasa sta infatti avendo ripercussioni importanti per i 6500 rom che a Roma vivono nei sei “villaggi attrezzati” – quelli costosissimi creati ad hoc dalle amministrazioni – e nei nove “campi tollerati”. «Sono luoghi sovraffollati in cui non c’è stato ancora alcun intervento di igienizzazione da parte del comune, famiglie da 7-8 persone vivono in container o roulotte di 20 mq. La paura del contagio è fortissima, anche perché non c’è stata informazione sul dilagare dell’epidemia e sulle misure da prendere, le persone si sono informate tramite la TV. Di conseguenza sono circolate tantissime fake news che all’interno dei campi sono aumentate esponenzialmente» spiega Brazzoduro.

La morte del 33enne serbo per coronavirus – arrivato l’11 marzo all’ospedale Spallanzani già in gravi condizioni – non è bastata ad attivare le istituzioni: lui viveva in una casa popolare con la moglie e i quattro figli ma frequentava ogni giorno uno dei campi della Capitale, quello di via Salviati, dove viveva il resto della sua famiglia, a cui però non è stato fatto nessun tampone. «Eppure anche un solo contagio in luoghi del genere può provocare una catastrofe». Un’emergenza fotografata anche dall’Associazione 21 Luglio, che il 19 marzo ha pubblicato un report basato su interviste telefoniche a un campione di abitanti di alcune delle baraccopoli formali monoetniche della capitale. «In nessuna baraccopoli è stata segnalata la presenza di operatori sanitari disponibili a distribuire dispositivi di prevenzione o ad illustrare le misure atte a prevenire il contagio – si legge – Restano quindi le azioni raccomandate attraverso la tv e che sono praticabili, però, laddove le condizioni igieniche lo permettono o dove almeno c’è disponibilità di acqua corrente (scarsa in via di Salone e utilizzata solo attraverso autobotte a Castel Romano)».

Ad aggravare la situazione l’impossibilità per molti di svolgere la consueta attività lavorativa. «Svolgono perlopiù lavori saltuari – continua Brazzoduro – come la compravendita di metalli, il rovistaggio e la vendita degli abiti ai mercatini etnici, che ora son tutti chiusi, gli sgomberi delle cantine, o finanche l’elemosina. Lavori che consentono tuttavia guadagni molto limitati, e quello che guadagnano giornalmente in genere lo spendono per sopravvivere. Chi non aveva delle riserve, ora è letteralmente alla fame, ricevo delle segnalazioni ogni giorno». Chi se lo può permettere esce per la spesa, rigorosamente una persona a famiglia (i campi “attrezzati” sono controllati da vigili o poliziotti) e chi non ha la macchina deve spesso percorrere a piedi dei lunghi tratti di strada in quanto alcuni villaggi sono stati relegati alle periferie dei centri abitati e non ci sono supermercati vicini. E sono comunque fortunati: con la paura del contagio e le restrizioni, il sostegno che tradizionalmente la comunità forniva alle persone anziane e sole del campo è inevitabilmente venuto meno. Infine c’è lo stigma sociale, una costante che nemmeno l‘emergenza Covid-19 ha scalfito. «Mi hanno segnalato che due ragazze, andate al supermercato per fare delle compere, sono state cacciate proprio perché abitanti del campo vicino. Questo è assolutamente illegale, ma in genere loro sono abituati ad abbassare la testa e subire queste forme discriminazione» commenta amaro Brazzoduro.

Per tutti questi motivi Cittadinanza e Minoranze aveva lanciato una raccolta fondi che ad oggi ha permesso di aiutare diverse famiglie di cui l’associazione conosce bene le condizioni di difficoltà. Un’altra speranza è arrivata dall’ordinanza che ha stanziato 400 milioni ai Comuni per distribuire aiuti alimentari a chi ne ha bisogno. «A Roma sono toccati 15 milioni» spiega Brazzoduro, che aveva subito scritto alla sindaca Virginia Raggi affinché i buoni spesa venissero rivolti anche ai rom. L’Ufficio Speciale Rom, Sinti e Caminanti ha risposto positivamente, cioè che avrebbe incluso tutte le famiglie rom quali potenziali beneficiari, anche se tra i volontari e gli operatori permangono delle perplessità, soprattutto sulla modalità. Per richiedere il buono spesa, infatti, le famiglie dovranno stampare un modulo da compilare, firmare e scannerizzare per poi essere inviato via mail insieme a una fotocopia del documento di identità. «Per molti non è certo un’operazione facile. Quanti rom hanno il computer?». Per non parlare delle tempistiche: i buoni infatti potrebbero arrivare solo dopo metà aprile, mentre l’emergenza è adesso.

Per questo le associazioni, così come i gruppi solidali e di volontariato nei vari quartieri della città hanno iniziato a muoversi da subito. Anche 21 Luglio, oltre al report e agli appelli alle istituzioni, ha messo in campo numerose iniziative di sostegno ai rom e sinti in emergenza abitativa della Capitale: dal servizio di ritiro spesa in alcuni supermercati per gli anziani over 70, al servizio di raccolta beni di prima necessità per bambini nella fascia di età tra gli 0 e i 3 anni; dalle “Fiabe al telefono” in lingua italiana e in lingua romanes che i bambini possono ascoltare chiamando il numero 3884623209, alla fornitura di accessi alla rete internet affinché i bambini possano collegarsi con le piattaforme progettate dalle scuole e garantire così la continuità scolastica. Lo slogan della campagna: #noinoncifermiamo.

*Vita

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