Alla ricerca del “modulo abitativo”

Questo articolo è uscito il 7 dicembre su Cronache di ordinario razzismo

Anna Pizzo

Vogliamo raccontarvi una storia, ma prima è necessaria una premessa. Un paio di giorni fa sul sito del Comune di Roma è uscito il bando per il cosiddetto “superamento” di altri due campi: Lombroso e Salviati. E’ il proseguimento del cosiddetto “Piano per il superamento dei campi” messo a punto dalla sindaca Virginia Raggi circa tre anni fa e che ha prodotto, al momento, il seguente risultato: dai due campi – Monachina e Barbuta – che, nel calendario, chiuderebbero a fine anno, molte famiglie stanno scappando alla spicciolata ma non per andare in un appartamento o in una delle altre velleitarie “sistemazioni” previste dal Piano. No, vanno semplicemente sulle rive dell’Aniene, o sotto qualche ponte stradale o si infilano in uno dei campi spontanei.

Ora la seconda bordata riguarda i campi di Salviati e Lombroso, che dovranno essere chiusi entro il prossimo anno. Nel bando si legge che per i 144 abitanti di Lombroso il comune ha predisposto uno stanziamento di 171.417,27 euro alla Associazione che si sobbarcherà la “rottamazione” o, come piace dire alla sindaca, “la bonifica”. Per Salviati, 430 abitanti, il pacchetto è ancora più goloso: si stanziano 443.383,92 euro. Vediamo per fare cosa: “L’obiettivo generale – si legge nel bando – è sostenere percorsi relativi alla fuoriuscita degli ospiti prevedendo l’implementazione di misure sistematiche volte al raggiungimento di una progressiva inclusione sociale, economica ed abitativa. Pertanto gli obiettivi specifici sono: aggiornamento della mappatura dei profili sociali dei singoli e dei nuclei familiari, delle risorse e del capitale sociale del campo mediante colloqui di approfondimento della rilevazione già effettuata dall’Ufficio Speciale RSC; strutturazione e implementazione di progetti individualizzati di inclusione lavorativa, da proporre all’Ufficio Speciale RSC per l’erogazione del relativo contributo, finalizzati all’acquisizione della piena autonomia delle famiglie e dei singoli; strutturazione e attivazione, previo nulla osta dell’Ufficio Speciale RSC, di progetti di gruppo (minimo n. 3 partecipanti) di inclusione lavorativa per l’acquisizione della piena autonomia delle famiglie e dei singoli; sostegno all’abitare”.
Come credete che si concluderà questa seconda “fuoriuscita”? Al momento con 600 mila euro buttati per rifare, per l’ennesima volta, un lavoro già fatto e che comunque dovrebbe essere di competenza dell’”Ufficio rom” che è pagato per questo.

Ma arriviamo alla terza fase: a seguire, recita il Piano, verrà chiuso il campo di Candoni: 838 abitanti di cui più della metà minori.

La nostra storia comincia proprio in questo campo. Ma prima di arrivarci, leggiamo qualche riga di un articolo uscito pochi mesi fa su Romatoday: “Cumuli di rifiuti lasciati marcire al sole. Bimbi che corrono scalzi intorno ai resti di baracche andate a fuoco. La puzza dei roghi tossici che non dà tregua e l’acqua che scorre fissa dai tubi rotti dell’impianto idrico, unico sollievo dall’afa. L’incrocio con via della Magliana è presidiato h24. Due camionette fisse della polizia e una volante. All’ingresso altri due mezzi dei vigili urbani sorvegliano la zona. Siamo al campo rom di via Luigi Candoni, periferia sud della Capitale. Quindicimila metri quadrati di terreno, un centinaio di container”.

Qui abita la famiglia Nae: nove persone tra padre, madre, fratelli, sorelle, figli. Il 6 luglio del 2018 a Giuliano Nae e ai suoi due figli minori (la mamma è morta) viene finalmente assegnata una casa popolare composta da una stanza cucina e bagno. Una occasione imperdibile così i tre si trasferiscono e nel container, assegnato dal comune nel 2016, restano in 6. Tutto sembra volgere al meglio quando, quasi un anno dopo, siamo a giugno 2019, al padre di Giuliano viene consegnato un foglio di carta con la revoca della misura di accoglienza dal momento che la famiglia ha avuto “l’assegnazione di un alloggio Erp”. Fabrizio Fraternali, responsabile del procedimento, intima di lasciare l’alloggio entro 72 ore. E, siccome non lo fanno (e come potrebbero?) tre settimane più tardi vengono sgomberati con la forza e finiscono in mezzo alla strada. “C’è stato un equivoco – ha cercato di spiegare Giuliano – la casa è stata assegnata solo a me e ai miei due figli piccoli, non a tutti. E, del resto, come potremmo stare in nove in una casa di una sola stanza?”.

L’associazione di cui faccio parte, Cittadinanza e Minoranze, chiede all’ufficio un incontro urgente ma ci riesce solo quando si rivolge a un legale. I funzionari ammettono l’errore ma il container è già stato assegnato a un’altra famiglia. Intanto, ai sei scacciati non resta che costruirsi una baracchetta di legni e cartone e aspettare.

Marco Brazzoduro, presidente di Cittadinanza e Minoranze, è testimone oculare dell’intera via crucis: “All’Ufficio rom hanno cercato in tutti i modi di non riconoscere l’errore facendo il pelo e il contropelo alla famiglia cercando di scovare qualche irregolarità. E’ un po’ la filosofia che li ispira nella gestione dei diritti dei rom: cercare espedienti per scremare il numero delle persone. Non li anima uno spirito di solidarietà per chi ha la sfortuna di vivere in stato di bisogno andando a cercare chi sta male. Al contrario, si parte dal pregiudizio che i rom sono imbroglioni e truffatori e quindi sono soddisfatti quando possono escludere qualcuno. Ecco, li anima lo spirito dell’esclusione e non dell’inclusione”.

Questa strenua resistenza dei funzionari del Comune dura 507 giorni, costellati di carte da bollo, diffide, intimazioni, minacce di denunce per abuso di atti d’ufficio che la nostra associazione e la famiglia Nae hanno potuto portare avanti grazie all’avvocato Giuseppe Siviglia fino a che, pochi giorni fa, arriva l’annullamento del provvedimento di revoca delle misure di sostegno ai 5 (il sesto nel frattempo è morto) della famiglia Nae. Ora l’avvocato è intenzionato a chiedere il risarcimento dei danni, ma lo fa più per dignità che per convinzione.

Carta canta e un documento ufficiale dà ragione agli sfrattati ma, forse, non è ancora il caso di rallegrarsi perché leggendo attentamente le penultime due righe del comma 3) della determinazione dirigenziale 30/11/2020, dopo tanti “premesso che” e altrettanti “considerato che” e “attestato che” e “rilevato che” e “dato atto che”, così si legge: “l’Ufficio speciale Rom, Sinti e Caminanti assegnerà ai componenti del nucleo familiare di cui al punto 1) un modulo abitativo nel campo di Candoni non appena se ne libererà uno idoneo”.

Calendario alla mano, chi è disposto a scommettere che “un modulo abitativo idoneo” non si libererà prima che il Piano della sindaca abbia spazzato via anche quel campo e con esso tutti i suoi abitanti?

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