Il coronavirus degli “altri”

Gabriele Lippi*

Restiamo a casa. Noi, quei fortunati che una casa ce l’hanno. Quella fetta di popolazione maggioritaria a cui sono rivolte tutte le raccomandazioni di questi giorni per ostacolare la diffusione del coronavirus. Non uscire se non è necessario, rispettare le distanze di sicurezza, usare mascherine e guanti se possibile, lavarsi in continuazione le mani. Poi ci sono gli altri, quelli che vivono in condizioni diverse dalle nostre, per cui queste raccomandazioni sono complicatissime da seguire. Come quella parte di popolazione rom e sinti che vive nei campi nomadi, tra 20 e 40 mila persone secondo le stime ufficiali, probabilmente molte di più in realtà.

Persone che, come spiega a Lettera43.it la portavoce del Movimento Kethane Dijana Pavlovic, sono più esposte al contagio da Covid-19 per tre motivi: «I campi sono sovrapopolati, come quelli di Roma, quindi si sta per forza molto vicini. Lo stile di vita comunitario contribuisce certamente, così come gli spazi ristretti in cui si vive, con famiglie molto numerose racchiuse in container e case mobili di dimensioni molto ridotte. Aggiungete, poi, che secondo molti indicatori a livello europeo, le persone che vivono nei campi sono quelle che comunque hanno un’aspettativa di vita molto più breve e più facilmente soffrono di patologie gravi».

Nei campi si muore più facilmente, anche in condizioni normali, figurarsi in presenza di un’epidemia, e le condizioni igienico-sanitarie non sono delle migliori. «In quelli irregolari, quindi non in tutti, c’è un gravissimo problema di mancanza d’acqua. Così come capita nelle baracche e negli edifici abusivi abitati da alcuni migranti». Per questo il Movimento Kethane ha lanciato un appello urgente alle istituzioni perché portino acqua dove non ce n’è: «Altrimenti è inutile continuare a ripetere di lavarsi le mani».

Purtroppo, finora, le istituzioni si sono dimostrate sorde al problema: «Salvo qualche raro caso a livello locale, in generale i campi sono totalmente abbandonati. Nessuno è passato nemmeno a fare informazione sulla prevenzione. Anche quel minimo di servizi che prima c’era, dove c’era, è stato interrotto». Persino le associazioni come Kethane hanno dovuto interrompere le visite a causa della quarantena: «Finché abbiamo potuto siamo andati, ora restiamo connessi online, facciamo informazione su come agire in certe situazioni, come comportarsi se qualcuno stia male». In tutto questo, le comunità hanno dovuto organizzarsi autonomamente: «Hanno reagito con grande responsabilità, fanno prevenzione come possono, ed è un miracolo, una cosa eccezionale che non ci sia stata un’esplosione in questo contesto e che almeno per ora ci sia stato un numero limitato di casi».

Lo stato di necessità, però, è chiaro, così come le richieste che il movimento ha rivolto a governo, presidenti delle Regioni e prefetti: serve acqua, sapone, igienizzanti, pannolini e farmaci. E serve anche il cibo, perché nei campi non esiste lo smart working e anche quella micro-economia si sta fermando. In difficoltà sono i lavoratori di ferro, i giovani che lavorano in nero per pizzerie e ristoranti, che non hanno alcuna copertura assicurativa o possibilità di accedere agli ammortizzatori sociali, chi chiede l’elemosina in mezzo a strade sempre più vuote. «Stanno esaurendo tutti quei pochi risparmi che avevano».

Chi li ha già esauriti, invece, sono i lavoratori dello spettacolo viaggiante, di giostre e luna park, almeno 15 mila persone che vivono di questa attività pagando le tasse e creando una piccola economia. La loro attività sarebbe dovuta riprendere ora, con la fine dell’inverno, e invece non partirà chissà ancora per quanto tempo. I risparmi accumulati per superare la stagione di chiusura sono finiti, e anche loro avranno inevitabilmente enormi problemi. «Pur dipendendo dal ministero della Cultura, non sono stati inseriti in nessun provvedimento, il governo si è dimenticato di loro».
Per Pavlovic, «è una situazione che deve essere gestita. Se non per uno spirito di umanità che dovrebbe essere ulteriormente accentuato in questa situazione, quantomeno per questioni di sicurezza e ordine pubblico. Perché nessuno si lascia morire di fame senza fare nulla».

*Lettera 43

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