Tra universalismo ed etnicismo

Luca Bravi*

Sono due le immagini da cui partire per riprendere il ragionamento sviluppatosi in questi giorni intorno al dibattito tra universalismo e etnicizzazione rispetto alle politiche d’inclusione di (o con) rom e sinti; la prima immagine rimanda alla necessità di ricordare che il mondo in cui viviamo è fortemente etnicizzato: i nostri governi sono fortemente etnici, etniche sono le nostre rappresentanze nei parlamenti nazionali ed europei, dunque esistono maggioranze etniche fortemente rappresentate ed in grado di gestire il potere e minoranze prive di rappresentanza (soprattutto se prive di uno Stato). Tra i poteri più consistenti gestiti dalle maggioranze etniche c’è quella di poter nominare e fornire categorie di riferimento, un’azione che corrisponde a poter “nominare” e cioè porre etichette su soggetti ed oggetti circostanti. La seconda immagine è la riflessione offerta da un sindaco di una città del centro-Italia che ci trasporta immediatamente verso ciò che riguarda la necessità di dare risposte amministrative concrete per l’inclusione di rom e sinti nelle città del presente: “ho otto famiglie sinte che vivono in un’area di sosta pubblica che ha grandi problemi, sono convinto che i campi nomadi vadano superati, perché sono l’origine di emarginazione ed esclusione di tutti i tipi, allora ho offerto la soluzione della casa come emergenza abitativa, ma le famiglie non hanno accettato e mi hanno chiesto di adoperarmi per attrezzare una micro-area; pur restando convinto che la casa sarebbe meglio, se io oggi avessi avuto la possibilità di offrire loro una micro-area già costruita, io avrei risolto tutti i loro problemi abitativi”.

La riflessione inizia da queste due premesse:la prima ci dice che siamo immersi in un contesto talmente etnicizzato che il gruppo maggioritario detiene pure la possibilità di dichiarare l’etnicità degli altri, ma di negare la propriala seconda ricorda chel’universalismo dei diritti (e dei doveri) rappresenta una fondamentale meta verso cui tendere, ma applicato senza compromessi nel presente può causare il permanere di problemi d’inclusione, di fatto acuendoli e lasciandoci senza un mete intermedie su cui incontrarci per predisporre una soluzione spendibile.

E’ in questo contesto che va considerato il dibattito sviluppatosi tra la posizione espressa in particolare e con forza da Associazione 21 Luglio di Roma e che porta l’universalismo fino alla scelta di eliminare l’etichetta “rom” (colpevole di storiche azioni che tramite l’etnicizzazione hanno estremizzato l’esclusione) e la posizione opposta espressa dall’associazionismo rom e sinti riconducibile alle figure di Dijana Pavlovic, Santino Spinelli, Graziano Halilovic ed altri che riconosce in questo approccio fortemente universalista gestito soprattutto da “esperti non rom/non sinti” un modo di trattare la minoranza rom come oggetto di studio e non come soggetti attivi a livello sociale e politico.Naturalmente, la posizione universalista non è solo di 21 Luglio ma è condivisa anche da studiosi non rom come pure da alcuni rom (ed anch’io la intravedo come punto d’arrivo ideale), d’altro canto la critica mossa dalle altre associazioni è condivisa anche da alcune componenti non rom e non sinte e considerarla seriamente significa far emergere un fulcro nodale di tutta la discussione tuttora in atto. Chi si muove sulla scia dell’universalismo e della cancellazione dell’etichetta rom per non ripercorrere la trascorsa politica differenzialista, naturalmente non intende negare la necessità di coinvolgimento ed attivismo rom e sinto, ma in tal modo viene percepito da chi critica tale posizione, soprattutto dall’interno del mondo rom.

A questo punto potremmo ridurre il ragionamento ad una metafora utile a semplificare per cogliere l’essenza delle due posizioni in gioco: entrambi gli attori sono d’accordo sull’orizzonte cui tendere che è quello descritto dalle parole della canzone Immagine di John Lennon, ma la maggioranza dell’associazionismo rom imputa agli “universalisti non rom/non sinti” di voler gestire il microfono e di non permettere a molti sinti e rom di prendere la parola direttamente.

Sono stati giorni di riflessione personale intensa, perché di fatto la storia che ho ricostruito a livello europeo testimonia la pericolosità di schiacciare un’intera comunità sul forte riconoscimento etnico, perché quest’approccio scatena l’attività rieducativa che la maggioranza ha da sempre diretto sulla minoranza rom e sinti.

Penso si debba però riflettere anche su questa spinta all’universalismo portata fino all’estrema conseguenza di negare di trattare di “esclusione dei rom e sinti” derubricandola in “esclusione dei popoli delle baraccopoli”, perché percorrendo questa strada certamente si risolve il pericolo dell’etnicizzazione, ma contemporaneamente si nega che esista una componente rom e sinti attiva e che chiede riconoscimento a partire proprio dal proprio riconoscersi in comunità rom/sinti; si corre in effetti il rischio di negare riconoscimento alle persone di cui stiamo parlando (o con cui stiamo dialogando) indicando loro, ancora una volta, come devono o non devono percepirsi, come devono o non devono chiamarsi. Ci sono più livelli di questa riflessione, perché se facilmente si può decidere di negare l’utilizzo del termine (e del contesto) “zingari” trattandosi di un’etichetta coniata con disprezzo dalla maggioranza, negare che esista l’esclusione rom o la realtà rom (attraverso la sua sostituzione con differente etichetta più generalista) significa negare ciò che le comunità rom e sinti stanno oggi affermando con forza, cioè il proprio riconoscimento di soggetti vivi ed attivi che proprio al contesto “rom/sinti” fa riferimento. L’eccesso di universalismo in questo momento storico (seppur meta ideale cui tendere) rischia di negare e quindi di non riconoscere secoli di antiziganismo che non è stata politica di esclusione contro popoli oppressi in generale, ma specificamente contro rom e sinti, come pure il “campo nomadi” non è solo una baraccopoli ma un luogo fortemente connotato e costruito sulla base del razzismo verso i rom (il campo nomadi è stato costruito con un forte riferimento allo zingaro nomade).

Le parole del sindaco della città del centro-Italia ci ricordano che se spingo all’estremo l’universalismo, alla fine nego che in alcuni casi ci sia bisogno di un intervento specifico (articolo 3 della Costituzione) che sia rivolto a rom e sinti se voglio garantire un compromesso raggiungibile, perché l’emarginazione del campo nomadi è stata creata sulla base dello stereotipo dello zingaro e tirare una riga nel presente e non considerarla nella sua profondità storica rischia di annullare lo strumento di riconoscimento che le comunità stavano costruendo; di fatto, perché mai l’edilizia pubblica non dovrebbe davvero poter creare palazzi, ma allo stesso modo spendere soldi pubblici anche per qualche microarea (da leggere anche come soluzione di passaggio che forse porterà successivamente alla casa), se queste soluzioni garantissero la vita dignitosa fuori dai campi nomadi? Ed un convinto universalista, che risposta offrirebbe al sindaco, perché possa intervenire in modo positivo nel presente senza innalzare il conflitto con le comunità e rischiare di chiudere ogni mediazione appena nata e che trova nella questione abitativa un fulcro importante? Bisogna essere molto attenti su questo elemento, perché a forza di rincorrere l’universalismo estremo, quest’ultimo finisce per somigliare alla pratica rieducativa imposta dall’esterno.

Resta un dato che credo sia centrale, quello di rincorrere l’universalismo solo dopo aver garantito e favorito la partecipazione in stretto collegamento con le comunità che oggi sono dentro a questo percorso (al di là dei differenti punti di vista). È questo  il vero elemento irrinunciabile intorno a cui ritrovarsi, per non far puzzare le nostre politiche di paternalismo, altrimenti l’universalismo estremo diventa rieducazione coatta e l’etnicismo duro e puro rischia di sollevare muri che rende tutti più deboli perché divisi.

*Luca Bravi è ricercatore presso L’Università Telematica L. da Vinci di Chieti e docente a contratto presso il Dipartimento di Scienze dell’educazione dell’Università di Firenze.

 

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