Chi vuole cancellare l’identità?

DE-ETNICIZZARE PER CANCELLARE L’IDENTITA’?

Un gruppo di sponenti RSC

 

Siamo preoccupati della direzione che sta assumendo il dibattito pubblico sulla “questione rom”, che, non è una novità, vede esclusi rom e sinti e protagonisti accademici e qualche associazione che monopolizza la comunicazione e anche risorse destinate all’inclusione di rom e sinti. Vogliamo qui proporre una riflessione pubblica. Qualche rom ha ritenuto inappropriata e offensiva l’immagine che illustrava la locandina del convegno “Inclusione, esclusione e diseguaglianze sociali – Politiche interventi pubblici e processi socio-economici nel contesto europeo – Il caso dei gruppi rom”, organizzato in Ottobre a Lecce dall’ICISMI. Sembrava indulgere al solito cliché dei rom e sinti brutti e sporchi rappresentato da un gruppo di bambini cenciosi, palesemente non rom. In realtà era perfettamente coerente con il titolo e l’assunto del convegno che aveva come tema l’inclusione e l’esclusione sociale in quanto condizione e frutto della diseguaglianza sociale in generale – di cui quei bambini erano il simbolo – e nella quale i “gruppi” rom sono inseriti come uno dei tanti “casi” di studio. A Novembre l’associazione 21 Luglio ha presentato una ricerca sui matrimoni precoci nelle baraccopoli romane. Il fatto che i loro abitanti fossero rom e sinti era pura casualità per gli autori della ricerca, la tesi essendo che è il degrado a produrre matrimoni precoci come soluzione alternativa al disagio e alla diseguaglianza sociale.

Tralasciando l’ascientificità della ricerca (un campione insufficiente, l’incomparabilità della scala tra i rom delle baracche romane e il Niger, ecc. ma ci riserviamo una più puntuale analisi), le sue conclusioni prescindono dai fattori storico-culturali e i dati presentati ai mezzi d’informazione sono serviti solo a fornire ulteriore materia all’antiziganismo, cosa puntualmente avvenuta con una raffica di titoloni del “dagli allo zingaro incivile” (peraltro il titolo della presentazione era un chiaro invito al sensazionalismo: “Matrimoni precoci: nelle baraccopoli romane superato il record del Niger”).

Qui interessa piuttosto capire cosa lega questi due momenti, entrambi ammantati con l’autorevolezza scientifica del dibattito accademico e della ricerca. In entrambi i casi, come si dice tecnicamente, si “de-etnicizza”, cioè si assume la condizione del degrado delle comunità rom e sinte messe ai margini sociali e civili come fenomeno della più generale condizione di marginalità sociale delle diverse fasce di popolazione, cioè tra un homeless, un immigrato, un italiano in miseria e un rom o un sinto non c’è differenza essendo accomunati da un medesimo destino.

Quindi la “questione rom” diventa solo una questione sociale, non è più – e non va più affrontata – come la questione di una minoranza storico-linguistica messa ai margini sociali dal suo mancato riconoscimento e dalla discriminazione, dal profondo antiziganismo che pervade la società italiana. Non c’è alcuna differenza tra questa e la posizione di Salvini che pure sull’antiziganismo ha soffiato a pieni polmoni.

Se i rom non si distinguono se non per la loro condizione sociale, che differenza c’è tra loro e gli altri? Si arrangino come tutti e per chi non può ci sono gli interventi pubblici come per tutti. Alla faccia delle politiche dedicate a rom e sinti dal Consiglio d’Europa e dalla Commissione europea e della Strategia nazionale per rom, sinti e caminanti approvata nel 2012 dal governo italiano per contrastare la discriminazione e favorire l’inclusione. Questa impostazione piace anche a tante amministratori locali, da Milano in giù, che derubricando a piaga sociale rom e sinti eliminano la causa stessa dell’emarginazione, cioè la discriminazione di cui questo popolo è vittima da quando apparve in Europa intorno al 1400. In questo modo possono indifferenziare le risorse disponibili per le emergenze sociali eliminando la voce rom e sinta dal bilancio (cosa che fa bene a chi non vuole essere attaccato perché “dà i soldi agli zingari”).

Il cuore del problema è quindi il diritto al riconoscimento del popolo romanì, della sua identità fatta di una storia, di una lingua, di una cultura. C’è voluto lo sterminio di 6 milioni di ebrei perché l’antisemitismo venisse messo al bando nel mondo civile. Purtroppo il mezzo milione di “zingari” uccisi nei Lager e le altre migliaia fatte fuori per le strade dell’Europa occupata dai nazisti, in Polonia, in Russia e negli orridi Lager croati non hanno avuto lo stesso conforto e oggi, a differenza dell’antisemitismo, l’antiziganismo non grava sulla coscienza collettiva. Gli stessi nazifascisti hanno dibattuto se rom e sinti, più semplicemente “zingari”, fossero una piaga sociale o un problema razziale, in realtà alternando entrambi gli aspetti. Anche qui il mondo accademico e scientifico si mobilitò. Illustri luminari, che anche dopo la guerra continueranno tranquillamente le loro carriere, hanno offerto il loro supporto al delirio nazifascista sulla base dell’eugenetica, la scienza del “miglioramento” della razza (all’italiano Lombroso sono tuttora dedicate molte vie nelle città italiane!).

Il nodo viene sciolto dai, diremmo oggi, decreti applicativi delle leggi di Norimberga del 1935, quando si codifica, nel Gennaio del 1936, anche da un punto di vista normativo, che esse vanno applicate anche alla “razza” degli “zingari” in quanto come quella ebrea “estranea alla specie”. Infine nel Dicembre 1938 Himmler emana il “decreto fondamentale” per “la soluzione radicale della questione zingara”. Nel dopoguerra la questione si è riaperta a partire dal processo di Norimberga. È stato impedito il riconoscimento del Porrajmos o Samudaripen – la Shoah dei rom e dei sinti – e il risarcimento delle sue vittime proprio appellandosi alla tesi della piaga sociale, negando lo sterminio razziale, fino a quando nel 1979 la Germania ha riconosciuto l’origine razziale dello sterminio di rom e sinti, ha eretto un memoriale davanti al Parlamento tedesco e ogni anno finanzia gli istituti culturali dei sinti e rom tedeschi. In Italia nulla di ciò. I campi di internamento fascisti istituiti in tutta la penisola sin da Settembre 1940 non fanno parte dei libri di storia e nel dopoguerra anche tra gli storici che si sono occupati di questa questione c’era chi sosteneva la tesi che la persecuzione di rom e sinti avesse ragioni sociali e non etniche.

Sembrava poi, infine, affermata la ragione razziale del Porrajmos o Samudaripen, ma nel 1999 la legge di riconoscimento delle minoranze presenti sul territorio nazionale ne riconosceva 12, unica esclusa la più numerosa e la più discriminata, quella di rom e sinti, e un anno dopo lo sterminio di rom e sinti è rimasto escluso dalla legge che nel 2000 ha istituito la Giornata della Memoria per ricordare le vittime del nazifascismo. Questo rivisitare un po’ la storia serve per comprendere qual è oggi il problema fondamentale della comunità rom e sinta e a capire la preoccupazione che nasce ascoltando quei sociologi e ricercatori che teorizzando l’universalismo e la de-etnicizzazione della diseguaglianza azzerano l’identità di un popolo, che è sopravvissuto, finora, solo grazie al senso di appartenenza a una comunità con una lingua, una storia e una cultura condivisa pur con tutte le sue articolazioni. È bene riflettere sugli esiti, sulle conseguenze ultime di certi assunti e di operazioni come quelle su citate.

Il rischio vero è che ci sia un totale rovesciamento di senso: se le comunità rom e sinte non sono più ridotte ai margini sociali, civili e persino spirituali perché vittime di un profondo, diffuso antiziganismo, questo vuol dire che se la scelgono da sé la marginalità? Se la discriminazione non è più la causa prima del pregiudizio, dell’esclusione, della ragione per cui scuola, lavoro e casa sono beni inaccessibili a chi porta il marchio dello “zingaro”, rimane solo la pura assistenza a gruppi considerati socialmente fragili. Così si dà legittimità, consapevolmente o non, a un secondo genocidio, questa volta culturale, che a differenza di quello fisico rischia veramente di cancellare il popolo rom.

Se si de-etnicizza, se si toglie cioè l’identità, perché si dovrebbe chiedere il riconoscimento di minoranza storico-linguistica, perché si dovrebbe tutelare un patrimonio culturale come la lingua romanès, legame e identità delle diverse comunità?

Su questo chiediamo di riflettere a tutti, a chi si occupa a vario titolo di rom e sinti, alle associazioni rom e sinte e anche a chi, come l’associazione 21 Luglio, persegue questo obiettivo come è evidente seguendo un percorso coerente di cui segnaliamo alcune tappe: 2013: l’attacco alle leggi regionali specifiche per rom e sinti (obiettivo praticato poi concretamente da Lega Nord che nel 2015 provvedeva ad abrogare le leggi di Lombardia e Veneto – difficile dimenticare la foto dei trionfanti consiglieri regionali lombardi con in mano un modello di ruspa! – e specularmente l’attacco alla legge regionale approvata nel 2015 dalla Regione Emilia-Romagna con un’ampia e preventiva consultazione delle comunità sinte e rom); 2014: il sabotaggio con una lettera alla Commissione europea condivisa con ERRC e OsservAzione del progetto approvato e finanziato dal Comune di Napoli che prevedeva la chiusura del campo di Cupa Perillo con l’inserimento in un progetto urbano di 400 persone.

Grazie alla guerra alla presunta “segregazione” il finanziamento è stato sospeso e le 400 persone vivono tuttora nelle baracche. 2015: l’ostilità e il contrasto alla proposta di legge di iniziativa popolare promossa da 47 associazioni rom e sinte con l’appoggio di una parte importante della cultura e dell’associazionismo. La legge assumeva le linee emerse da un convegno internazionale di tre giorni sulla situazione giuridica di rom e sinti in Italia tenuto all’università Bicocca di Milano condotto dai docenti Paolo Bonetti, Alessandro Simoni e Tommaso Vitale. 2016: sul Fatto quotidiano il presidente di 21 Luglio sostiene, attaccando personalmente esponenti dell’associazionismo rom, che deve prevalere la competenza, quella degli “accademici” degli “esperti” contro i “detentori della ‘cultura’ rom”.

L’assunto è esemplare: “A livello europeo sembra prevalere questa tendenza con il risultato che, se nel passato erano i ‘campi nomadi’ a drenare risorse, spesso illecite, nell’orizzonte futuro ci saranno praterie per quanti vorranno operare nell’ambito della ‘cultura rom’. Le conseguenze sono prevedibili e nefaste: la nascita di una intellighenzia rom in Italia, detentrice ‘della’ cultura rom e foglia di fico creata per coprire il fallimento del superamento dei ‘campi’”. 2017: la ricerca sui matrimoni precoci, su citata. E, infine, la conclusione di questo itinerario ci pare la proposta di una vera e propria “soluzione finale”contenuta nella ricerca-azione “Non dire rom”, presentata recentemente da 21 Luglio, che chiude il cerchio del ragionamento sul genocidio culturale.

L’azione è semplice: semplificando, per eliminare l’antiziganismo, basta eliminarne l’oggetto, cioè lo “zingaro”. Non si deve più dire rom, sinti o peggio “zingari” ma rumeni, bosniaci, serbi, ecc. in condizioni disagiate (per i rom italiani di antico insediamenti il problema è più complesso ma certo si troverà una soluzione). Eliminando la parola rom dal vocabolario si elimina il problema. Peccato che ciò non dipenda dalla buona educazione semantica ma dalla concreta, materiale presenza di un popolo oggetto della più lunga e velenosa discriminazione, un popolo che c’è e rimane e non si esorcizza cambiando l’uso delle parole. Si arriva infine (Blog di Stassolla sul Fatto quotidiano del 5 Dicembre) a negare la stessa esistenza della minoranza dei rom e dei sinti in base all’articolazione nominale delle comunità. Troppi nomi, troppe definizioni impedirebbero un’unica definizione e di conseguenza chi avrebbe titolo a definirsi appartenente a una minoranza che non si può definire?

Risulta di conseguenza inutile e sbagliata la pretesa avanzata da giuristi, parlamentari comunità rom e sinte di ottenere un riconoscimento giuridico di una minoranza indefinibile. Basterebbe qualche buona lettura e considerare il quadro giuridico internazionale per liquidare questo artificio, ma non si può accettare l’attacco frontale a un punto essenziale e decisivo per la stessa sopravivenza della minoranza dei rom e dei sinti, cioè il suo riconoscimento. Il mancato riconoscimento dello stato di minoranza , oltre a essere un’offesa alla nostra Costituzione (artt.3 e 6), alla Convenzione-quadro sulle minoranze nazionali del Consiglio d’Europa (art.5 e relativa specificazione del Comitato degli esperti a proposito della minoranza di rom e sinti), di fatto legittima la discriminazione anche a livello istituzionale, cosa che unita al pregiudizio e alle campagne di odio dei cacciatori di voti sulla paura, ha permesso all’antiziganismo di assumere le attuali dimensioni pervasive della società italiana e ha privato le comunità rom e sinte di ogni tutela.

Poi, qualcuno degli “esperti” vuol chiedere a rom e sinti se per caso hanno un punto di vista, se vogliono avere voce in capitolo e se sono d’accordo di sparire dal vocabolario, dalla scena civile e culturale dopo aver resistito per mille anni ai mille tentativi succedutisi nei secoli di assimilarli, “educarli” e sterminarli? Dove ci porta la de-etnicizzazione? Dobbiamo essere tutti eguali, nelle disgrazie e nelle fortune come sposi, senza storia, identità, cultura? I nativi americani, gli aborigeni australiani, i popoli primitivi dell’Amazzonia sono, come rom e sinti, solo residui etnico-culturali da superare? E questo è conseguenza di un inesorabile processo storico, della modernità, oppure è solo una forma aggiornata di un colonialismo culturale che ammette solo l’assimilazione del diverso e non più la convivenza? Per concludere.

Se è evidente l’interesse di alcune associazioni a monopolizzare le ricche risorse destinate ai progetti di inclusione delle comunità rom e sinte (nella logica tutto agli assistenti e nulla agli assistiti), meno evidente è l’interesse di quella parte del mondo accademico che si interroga sul superamento della etnicizzazione per affrontare il tema dell’emarginazione e della diseguaglianza sociale di rom e sinti. Ed è con questo mondo che ci interessa avere un incontro e un confronto per evitare che l’oggetto del dibattito sia virtuale o rappresentato solo da chi come 21 Luglio ha ragioni e obiettivi completamente e radicalmente divergenti da quello delle comunità rom e sinte con le quali, non a caso, si esclude il dialogo e il confronto.

Colpisce molto che questo avvenga mentre parallelamente le comunità rom e sinte si stanno emancipando dalla soggezione culturale nei confronti dei gagi e sviluppano momenti di aggregazione, di dibattito, di iniziative e eventi culturali che indicano proprio nell’identità che si vuol loro negare la strada di un rinascimento del proprio popolo che lo collochi a pari titolo tra le tante e diverse componenti della società dandogli il diritto di parola su ciò che lo riguarda. Un percorso parallelo e contrario di cui sembra che mondo accademico e ricercatori non colgano la novità e il valore e anche il bisogno di incontro e di scambio. Infine ci sembrerebbe anche un atto dovuto domandare ai soggetti pubblici e privati che finanziano progetti e ricerche che possono avere come conseguenza, e magari anche come fine, lo sterminio culturale della comunità rom e sinta se ne sono consapevoli e se ne condividono il senso.

Dijana Pavlovic, portavoce Alleanza Romanì,

Santino Spinelli, musicista, scrittore e docente,

Graziano Halilovic, presidente associazione Roma onlus,

Giorgio Bezzecchi, presidente cooperativa Romano Drom e Museo del viaggio Fabrizio De André,

Carlo Berini, vicepresidente associazione Sucar Drom,

Paolo Cagna Ninchi, presidente associazione UPRE ROMA,

Manuel Innocenti, presidente associazione Sinti Project International,

Radames Gabrielli, presidente associazione Nevo Drom

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